E’ naturale, credo, che un compositore chiamato a riflettere sulla situazione della musica contemporanea cerchi di mediare tra la propria esperienza personale, che ha il valore di tutto ciò che realmente si conosce, e il pensiero generale – quell’insieme di idee, studi, canali organizzativi, intenti politici e culturali – con il quale ha dovuto o potuto confrontarsi.
Per questo trovo inevitabile riepilogare qual è stato il mio rapporto con la filosofia della musica che imperava negli anni del mio apprendistato e della prima fase della mia carriera, prima di azzardare un’analisi di quanto sta avvenendo oggi.
Soprattutto su un punto la mia posizione non coincideva con quella dell’ambiente all’interno del quale mi stavo formando, anche se era rappresentato da maestri e persone che talora ho molto stimato. Non ho mai creduto che il linguaggio potesse essere considerato come frutto di un codice arbitrario, da reinventare, ogni volta, su una “tabula rasa”, per quanto intellettualmente sofisticata. Penso invece che sia un dato collettivo, che si è sedimentato nel tempo, da rispettare, coltivare, impreziosire, anche “forzare”, certo, ma non in base a presupposti puramente concettuali. Nè, men che meno, penso abbia senso attenersi a una retorica dell’avanguardia. Vale a dire a una serie di regole che nel tempo si sono incancrenite arrogandosi la presunzione di poter sostituire, nella loro povertà, prassi consolidate da un’intera tradizione.
Tali regole (che consistono spesso in divieti) hanno dato vita a un’accademia ben più rigida di quella che hanno sostituito, senza possederne la sapienza secolare. Così, dopo avere assistito, per decenni, a calchi di scritture cosiddette “sperimentali” che nella ricerca individuale avevano avuto un senso, ma ridotte a imitazione diventavano puerili, ancora oggi, agli esami in conservatorio o nelle giurie di concorsi, ci si trova a giudicare inammissibile questo o quel procedimento senza considerare se abbia una logica nella coerenza del brano.
Attenendosi spesso a postulati che vengono dichiarati come imperativi categorici – e che sono, invece, a parer mio, discutibilissimi – per lo più legati a un conformismo da anni Settanta. Il che è anche paradossale, perchè in nome del nuovo si usano formule che hanno ormai più di cinquant’anni. E se si dovesse seguire la logica che portò Boulez a dire che Schoenberg era morto, ora bisognerebbe dire che è morta l’avanguardia di quegli anni e via di seguito, in una catena di negazioni e pseudo-rotture senza fine. Rimanere intrappolati in questa logica, oggi, con tutto ciò che le scienze, umane e naturali, stanno scoprendo, non ha più il minimo senso. E’ incredibile il distacco che si è creato tra ciò che si sente ancora ripetere in certe aule di conservatorio (o come ora pomposamente pretende di farsi chiamare: Istituto di Alta Formazione Musicale) e la vitalità, la curiosità, la creatività di studenti di composizione che incontro ogni giorno, provenienti da tutto il mondo, così diversi da quella qualifica di ignoranti che al potere piace attribuire ai giovani per lavarsi le mani dalle gravi mancanze nei loro confronti.
La stratificazione secolare del linguaggio artistico nasce da ragioni percettive, fisiche, fisiologiche, psicologiche, non solo culturali e non esclusivamente convenzionali.
Per quanto riguarda il teatro musicale, ancora oggi c’è chi sostiene che “raccontare” sia reazionario. Era comunque la voce ricorrente quando cominciai i miei primi tentativi in quel genere. Gli studi scientifici più aggiornati (compresi quelli svolti nel campo della psicologia cognitiva e dell’intelligenza artificiale) hanno invece dimostrato che “narrare” è un archetipo che fa parte della nostra natura come respirare, mangiare, amare, parlare, cantare.
Eppure, c’è ancora chi storce il naso se in un’opera si “racconta”. Ed è inutile negarlo o fare finta che si tratti di una mia fissazione. E’ un dato reale, oggettivo, che continua ad avere un peso, benché senza dubbio sempre minore, anche nei circuiti organizzativi. E’ un po’ ciò che è successo in letteratura e nel cinema, solo che in musica certi atteggiamenti sono durati e durano molto più a lungo. Nessuno più si sognerebbe, oggi, di applicare questi criteri, in modo così astratto e rigido, a un romanzo o a un film. In campo musicale, purtroppo, checché se ne dica, accade ancora.
Pur avendo sempre mantenuto una sostanziale indipendenza dalle metafisiche correnti negli anni della mia formazione, non ho mai praticato compromessi o commistioni neppure con l’altro polo che idealizza a priori la contaminazione dei generi, la banalizzazione del linguaggio, la ricerca dell’effetto e la necessità di una presunta presa immediata sul pubblico. Credo invece che alla musica colta continui a spettare il compito di sintetizzare, come sempre è avvenuto, la forza comunicativa e la preziosità stilistica, l’impatto emotivo e la profondità del pensiero, una gestualità marcata e riconoscibile (usata senza disprezzo dai grandi di tutta la storia della musica) e una sapienza antica. Penso che un vasto pubblico sia interessato a un linguaggio che sappia giungere all’intelligenza e ai sensi, che sappia giocare con i meccanismi della percezione proprio come sanno fare forme e generi più semplici e immediati, ma che sappia anche condurre, attraverso una sorta di iniziazione alla meraviglia e al bello, verso dimensioni sempre più complesse, dense e appaganti, di comunicazione artistica.
Allo stesso modo, sento sempre più forte l’esigenza di un’attenzione alle questioni etiche e civili.
Il che non significa, naturalmente, che tali questioni debbano sostituire il contenuto specificatamente artistico dell’opera musicale. Ma non bisogna dimenticare che da Bach a Mozart, da Verdi a Britten, da Prokof’ev a Berg, sempre i musicisti hanno saputo piegare tale specificità a intenti di impegno umano e sociale. Oggi, in un momento in cui prevalgono messaggi di sopraffazione del più debole, di esaltazione della superiorità e dell’apparenza (del più forte, del più ricco, del più bello, del più famoso), di sprezzo per i valori di uguaglianza e di solidarietà, credo che anche i musicisti abbiano il dovere di prendere posizione. Purché lo facciano con le uniche armi legittime, determinabili solo ed esclusivamente dal valore intrinseco della loro musica.
Porsi il problema del comporre oggi significa porsi il problema di una tensione dialettica, di un’oscillazione tra tradizione ed esperimento, di un bisogno sempre più urgente di muovere lo strumento stilistico secondo esigenze e suggestioni contrastanti.
Una forza d’attrazione bilanciata tra due fulcri (quello astratto, strutturalista e atonale e quello tonale, modale e carnalmente legato alle tradizioni locali) ha determinato la mia posizione. Assai attaccata e/o trascurata, fino a tutti gli anni Ottanta, perché non allineata né con l’avanguardia dura e pura né con le varie correnti neo e i vari eclettismi tanto di moda, per reazione, fin dagli anni Settanta. Ma se dall’avanguardia mi sono staccato, l’ho fatto mantenendomi nel suo ambito per quanto riguarda l’analisi semiotica e le sue conseguenze creative. Lo studio accanito, imposto a me e ai miei studenti, del pensiero analitico e musicologico più importante, piega la mia naturale propensione verso un’espressività marcata a un rigore assoluto. Mi sento figlio dell’avanguardia nei suoi aspetti curiosi ed esplorativi, non in quelli dogmatici e apodittici. Ma la passione e lo studio altrettanto rigoroso delle tradizioni etniche mi ha portato a intraprendere nuove strade, più complesse e varie. Là dove negli episodi atonali scorre sempre ciò che la musica etnica mi ha insegnato, così quando rielaboro materiale folclorico lo sottopongo a una griglia rigorosissima.
Da tempo sento sempre più urgente il bisogno di trovare un punto d’incontro, nel comporre, tra l’accoglienza e la rielaborazione di spinte varie e la necessità di ricondurle a uno stile unitario. Penso sia venuto il momento di allentare la tensione, per aprirci davvero alla molteplicità. Per accettare la sfida della complessità e della multietnicità dobbiamo abbandonare un’eurocentrica supponenza ideologica. Ed estetica. Ridare vita all’artigianato, alla cura dei particolari, all’equilibrio tra ricerca astratta e piacere della comunicazione su un terreno tradizionale – quindi non solo arbitrario e concettuale, ma anche comune, collettivo, storico, antropologico. Un incontro tra la matrice strutturalista e la significazione primaria, come avviene negli ambiti letterari, cinematografici, figurativi che più mi interessano
Accettare e accettarsi. Aprirsi all’altro da sé. Credo nella cultura europea. Amo l’illuminismo e aspiro a uno stato laico che sappia garantire libertà a tutti i religiosi e a tutti gli agnostici. Dunque non penso che l’interrazialità si giochi su un facile romanticismo demagogico. La medietas che rincorro sul piano estetico ed etico non è un generico stare in mezzo. Anzi, forse ne è proprio il contrario. E’ una ricerca in divenire e mai stabile di un punto d’appoggio, di un centro di gravità, di uno spazio d’incontro tra idee diverse. Accanito seguace di un pensiero laico di volterriana memoria, ferocemente attaccato in questo momento storico – non temo l’Islam ma solo il suo fondamentalismo, tanto simile, almeno nelle sue radici, al nostro. E non temo la fusione delle culture, perché penso che né l’Europa, né l’Islam, né l’Oriente né l’America siano sintetizzabili banalmente in questo o quell’atteggiamento, ma rappresentino collettività complesse e in rapida trasformazione. Come la famiglia che davvero vive di valori e di amore condiviso non teme una coppia alternativa o gruppi di aggregazione diversi, così le radici della cultura illuminista devono pensare ad approfondirsi, a rianimarsi, a conservarsi, non a lottare contro falsi capri espiatori.
Non vi è nulla di facile, di romantico o di istintivo in tutto ciò. C’è invece tutto lo sforzo che agli uomini è richiesto per migliorarsi e cercare, faticosamente, di capirsi. Sono convinto che non ci possa essere scontro di civiltà, perché le civiltà per loro natura si incontrano. Come non ho mai sopportato dogmatismi confessionali o ideologici, altrettanto ho diffidato di quelli estetici o stilistici. Non dobbiamo avere paura di perdere le nostre radici, ma dobbiamo cercare di rafforzarle nel confronto continuo con le altre, in vista di un mondo dove le specificità non siano più eredità pregiudiziali o vicoli ciechi, ma spazi da scegliere ed arricchire liberamente, nel confronto continuo con il passato e il presente, nostro e altrui.
Goethe affermava che era bella quella musica che arrivava a “risuonare interiormente, anziché fermarsi alle orecchie”. Perché ciò avvenga sono necessarie alcune condizioni, che pertengono tanto alla sfera razionale-analitica, quanto a quella fisiologico-percettiva. E’ il nostro corpo, infatti, a suggerirci dei limiti, come li ha la materia sonora, anche se spesso l’abbiamo trattata come fosse neutra, insieme al linguaggio che ne derivava. E’ anche vero che si è chiesto al pubblico di dimenticare la ricchezza del linguaggio sonoro, la sua ambiguità e plurivalenza, insieme a quelle sfumature minime nelle quali si nasconde la vera modernità. L’avanguardia ha troppo spesso sottovalutato la complessità del nostro sistema percettivo e i traguardi conquistati in secoli di appassionante lavoro, che ha coinvolto i compositori e gli ascoltatori.
La bellezza, la percezione, il corpo, la comunicazione, il raccontare, la sapienza di un secolare rapporto tra la materia e l’uomo, tutto faceva paura. E, di conseguenza, le istanze progressiste spesso, di fatto, si sono trasformate nel loro contrario.
La definizione e la percezione dei confini è la chiave che può aprire la strada nei due sensi: verso la comunicazione con l’esterno, che deve adottare le regole del tempo sociale; o verso l’ascolto interno che ci parla la nostra lingua segreta. Non c’è metamorfosi senza perdita e senza visione: si può cambiare forma solo se si è disposti a perdersi, a meravigliarsi e ad immaginare. Le favole di cui hanno bisogno gli abitanti di un mondo disincantato non parlano più di fate e di streghe, ma debbono pur sempre insegnarci la meraviglia. La bellezza non è qualcosa di statico e di fine a se stesso: ci riguarda perché ci permette di vivere. La bellezza muove l’amore e l’arte. Dovrà muovere anche l’impegno politico e sociale.
Alla musica non spetta il compito di tradurre in suoni schemi filosofici, ma quello di rivitalizzare la bellezza. Perché la bellezza, se ci pensiamo bene, riguarda tutti. In un mondo di standardizzazione, volgarità, prassi dell’insulto e dell’aggressività verso il “diverso”, sforziamoci di rimpossessarci della bellezza come bene e diritto collettivo che salvaguarda l’unicità irriducibile degli individui. Se ci dimentichiamo del nostro corpo ricadiamo in un pensiero punitivo e spiritualista.
La bellezza dell’arte è l’unica che può rinnovare la complessità dei valori estetici nella loro più profonda connotazione. Sintonizzandosi anche con certi aspetti giocosi, e nonostante tutto propulsivi, nascosti dietro ai colori, alla velocità e alle immagini del mondo contemporaneo. L’avanguardia ha aperto la strada, ha allargato i confini, permettendoci una libertà espressiva prima impensabile. D’altro canto, non è più necessaria l’intransigenza dogmatica, la concezione della storia come un percorso volto verso un ipotetico traguardo, per cui, dato un evento, ne deve seguire un altro secondo un ordine logico prestabilito. Adesso c’è la possibilità dell’immanenza, del cerchio, della spirale.
Si può giocare con il presente e il futuro senza fare del passato un ambito mitizzato ma di fatto allontanato. I termini stessi “tonale” e “atonale” non possono più avere il senso attribuito loro dalle avanguardie (quasi si trattasse di due ambiti in contrasto metafisico), ma quello duttile e pragmatico che aveva loro attribuito Schoenberg. E se in altri tempi la scoperta dell’atonalità poteva richiedere l’estremizzazione di uno strutturalismo che ne permettesse l’indagine e l’elaborazione, oggi se ne contraddirebbe il senso profondo continuando su quella strada. Anche perché, a rigore, dopo le drastiche, totalizzanti spaccature del Novecento, che hanno portato da un lato a investigare, spesso filosoficamente più che artisticamente, il caso e l’improvvisazione, dall’altro al florilegio di codici altrettanto spesso tanto rigidi quanto autoreferenziali, ora nel perseguire la rottura come novità si cadrebbe in una contraddizione in termini, non essendoci più nulla di nuovo in tutto ciò.
E poi, ciò che era nuovo un secolo fa, non lo è più oggi. Per questo proporrei di abolire il termine musica contemporanea, che si riferisce ormai a una storia anche abbastanza lontana. Bisogna cercare il cambiamento all’interno dei limiti dettati dalla nostra corporeità, dalla nostra cultura e dalla nostra tradizione. Bellezza è la ricerca di una libertà che non si compiace della trasgressione in se stessa ma tende alla trasformazione graduale, incessante e sostanziale del linguaggio.
I modi per trasformarlo, oggi, sono, per loro natura, assai più sofisticati di quanto ci si poteva aspettare nel Novecento. Allora c’era l’illusione dello strappo, della programmazione concettuale, dell’alterigia antropomorfica. Ora c’è l’esigenza di ascoltare il passato, di recuperarlo rinnovandolo, di trovare un punto d’incontro tra la natura (il suo corpo, i suoi suoni, i suoi strumenti) e la civiltà. E se la natura sonora nel corso dei secoli aveva condotto ad alcune scoperte, non ha senso buttare a mare tutto. Né a senso dichiarare di rifarsi al passato, studiarlo, magari conoscerlo, ma tenerne distanti le prassi, le convenzioni, i codici come se fossero appestati, solo perché, nella concezione deterministica e futuristica, vengono da un flusso che si vuole interrompere. Piuttosto, ogni volta, nelle sfumature, nei dettagli, nel rigore e nella sapienza complessiva di un brano, continuiamo a custodire il vero e unico valore dell’opera d’arte: la sintesi di un patrimonio collettivo che, pur attingendo da ambiti universalmente sedimentati in convenzioni collettive, riesca a stupire, a superarsi, a commuovere, a far pensare. Lo strutturalismo nelle sue posizioni “talebane” assomiglia molto ai dogmi politici, religiosi e culturali che inquinano il mondo.
Comporre oggi significa rivolgersi alla nostra civiltà e aprirla al diverso, alla molteplicità e alla complessità attraverso una faticosa ed entusiasmante ricerca di un punto d’incontro, di un punto di equilibrio, instabile, perché continuamente perfettibile. Senza correre dietro al pubblico, ma senza neppure snobbarlo o, peggio, manipolarlo. Per dar vita a una società multietnica, aperta, che guardi alla cultura, all’arte e all’istruzione come mezzi per creare una società più giusta, che ritenga la bellezza non un privilegio di pochi ma un patrimonio collettivo da tutelare, sul quale modellare forme di vita più umane, una produttività che non si scontri con i diritti primari di ogni individuo e che non cerchi di distruggere gli altri e il pianeta. Insomma, musica e ricchezza non si scontrano. Bellezza e profondità non collidono. Ampio pubblico e preziosità di proposte non sono un’utopia.
Fabio Vacchi