MILANO Esistono tradimenti nella creazione artistica? Nel territorio della musica, per esempio, quanto e come si è tradito? Sono domande che partecipano al nostro viaggio a tappe nel tradimento: nozione velenosa, accidentata e storicamente mobile. «Un tradimento c’è stato, ed è quello della musica stessa», sostiene il compositore Fabio Vacchi. «Si è tradita la bellezza in nome di rigide astrazioni ideologiche». Musica ostica, incomprensibile, autoritaria nella sua distanza. Musica che rivendica il suo valore in base a un arido sistema teorico che ignora le esigenze del comune apparato sensoriale. Musica che ci ha tradito perché non ci appartiene.
È in questo genere di musica, dominante in un’ampia fetta di Novecento, che Vacchi scorge il tradimento: «Per un lungo periodo, nella musica contemporanea, chi prescindeva dal dogma era tagliato fuori, ed io sono stato bollato come traditore perché cercavo una via che conciliasse profondità e bellezza, comunicazione e raffinatezza. Si preferiva un pezzo brutto, ma agguerrito concettualmente, a un brano rigoroso ma anche capace di dare gioia. In tal modo si è tradito il corpo umano, primo destinatario del messaggio artistico».
Vacchi esplora l’idea di tradimento dalla prospettiva del suo destino di creatore profondo, originale e libero. Musicista tra i più affermati della sua generazione (è nato a Bologna nel ’49), ha firmato opere rappresentate in mezzo mondo ed eseguite in luoghi sacri della musica come la Scala, Salisburgo e Berlino. Ma ricorda come il suo lavoro, all’inizio, fosse considerato pericolosamente estraneo ai princìpi delle avanguardie più integraliste: «La mia ricerca gravita intorno a parametri psicoacustici che stimolano l’attenzione dell’ascoltatore, e da sempre scrivo musica anche per chi non ascolta quella contemporanea», spiega nel suo studio di Milano. «Sono convinto che l’arte debba saper muovere percezioni sensoriali e anche affettive, e non solo compiacersi della trasgressione in sé».
Pensa che tale compiacimento, nel passato recente, abbia portato all’indecifrabilità di tanta musica “seria”?
«Sì. Fino a non molto tempo fa, per chi faceva musica, era d’obbligo assoggettarsi a certe parole d’ordine che tradivano l’aspetto umanistico senza il quale l’arte diventa puro esercizio autistico. Adorno usava il termine “solipsistico” per definire la nuova musica. Ma paradossalmente gli attribuiva un significato positivo! Io credo che l’impossibilità di comunicare ad altri tramite un linguaggio comune equivalga a un vero tradimento, come pure cercare i favori del pubblico con musiche passatiste e banalmente accattivanti».
Molto è accaduto nel passaggio dalla musica tonale all’atonale?
«La diatriba tra il tonale e l’atonale, in principio, non aveva l’aspetto metafisico che ha assunto presso i cantori dell’atonalità post-schoenbergiana».
A chi si riferisce?
«Agli esponenti della Scuola di Darmstadt, per cui Webern era il solo possibile continuatore di Schoenberg. I weberniani e i post- weberniani si sentivano gli unici esegeti del verbo del capofila, visto come detentore della musica progressista. Il suo marcato serialismo era inteso come un fine, mentre in realtà Webern lo concepiva come un mezzo: uno strumento espressivo per dipingere i suoi acquerelli musicali intrisi di lirismo. Invece, partendo da quell’equivoco, si è giunti alla serialità integrale come negazione dell’autore. E si accusavano di tradimento i musicistiche, pur formati nella scuola delle avanguardie istituzionali, come lo ero io, cercavano altre strade. Per un mio concerto alla Biennale di Venezia si parlò di estetica del riflusso».
L’ideologia politica ha sempre condizionato quel modo d’intendere la musica, collocato “a sinistra”. Perché?
«Gli esiti di certe avanguardie portavano al distacco tra opera e pubblico, e si giustificava l’operazione affermando che il nuovo linguaggio presupponeva una nuova società, nata da una ri-voluzione sociale. Così si criticava un musicista straordinario come Britten per le sue scelte linguistiche non radicali, nonostante la sua sensibilità sociale e politica progressista».
Lei si è formato in questo clima?
«Sì. Cercavo il mio modo di esprimermi mentre Pierre Boulez scriveva che tutti i compositori non aderenti al serialismo integrale erano inutili. Di fatto il problema non sono le avanguardie, che hanno sempre una grande importanza quando nascono. Ma nel momento in cui si stabilizzano, e questo accade anche tramite giri di potere, diventano la negazione di se stesse, cioè retroguardie. Lo sostiene il musicologo Nattiez, i cui testi hanno contribuito a darmi una solidità anche teorica nel mio viaggio verso l’obiettivo di uno stile che preservasse la bellezza».
Questo bisogno di bellezza la faceva considerare fuori norma?
«Gli addetti ai lavori non tolleravano che mancasse la casella in cui infilarmi. In Olanda ricevetti un premio per l’opera Les soupirs de Geneviève: i critici si divisero in due. Chi mi dava del neoimpressionista e chi mi qualificava come neoespressionista. Si voleva trovare una definizione già esistente per qualcosa di nascente. Invece di guardare i fenomeni per quel che sono, il critico cosiddetto schierato approva solo gli atteggiamenti corrispondenti in partenza alle premesse che considera giuste. Perciò, pur meritando un certo rispetto, venivo lasciato ai margini. Non ero uno fidato. Un’altra censura ha colpito per molto tempo la narrazione».
In che senso?
<«Negli anni Settanta e Ottanta dire di un brano che era narrativo veniva considerato insultante. Sempre Boulez dichiara che il teatro musicale è morto perché la narrazione non ha più senso. Affermazione contraddetta dagli scienziati su base sperimentale. Le neuroscienze parlano del self autobiografico, cioè della creazione di un senso d’identità coincidente col rappresentarsi attraverso la propria storia. Il racconto è un cardine primario della nostra specie».
«Neanche Dante Alighieri arriva a tutti con immediatezza. Il piacere estetico è direttamente proporzionale allo sforzo che si fa per conquistarlo. Ma un primo approccio emozionale ci dev’essere».
Non andrebbe relativizzato il concetto di tradimento? Spesso gli allievi tradiscono i maestri.
«Certo. La musica avanza dandosi regole provvisorie. Ciò che cambia è lo stile, che è sempre un rispecchiamento del presente. Una volta enunciate le regole stilistiche vanno tradite, perché il tempo è già cambiato. Monteverdi era criticato per le sue dissonanze: anche lui tradiva i canoni in vigore».
Mai provato rimorsi, in quanto traditore?
«Mai. Una volta mi dissero: sei sul ciglio di un precipizio! Risposi che su quel ciglio la vista è stupenda»