La voce calanco del dizionario dice: “Solco d’erosione stretto e profondo, limitato da costoloni a lame di coltello, generalmente privo di vegetazione; è prodotto in terreni argillosi o marnosi dalle acque di dilavamento (da cala, insenatura, col suffisso ligure mediterraneo anco)”.
Ho scritto questo pezzo nel 1995, per celebrare il cinquantenario della Resistenza italiana.
Durante la Resistenza, furono gettati nei calanchi di Sabbiuno, una località presso Bologna, un centinaio di corpi di partigiani fucilati.
Essendo io nato a pochi passi da quel luogo, l’episodio mi colpì, come altri orrori di quel periodo, fin da bambino, quando ne venni a conoscenza. Ho scritto un pezzo emotivo che ho vissuto come disperazione trattenuta e insieme spasmodica: una sorta di marcia funebre stravolta e appena accennata. Il gesto sale verso l’acuto, come se dalle viscere della terra ci provenisse un monito a non dimenticare, a non cedere alla tentazione qualunquista di voler cancellare le colpe storiche di cui ci si è macchiati. Non si può “capire” senza “sentire”. Solo se vorremo anche “sentire” potremo riacquistare forza di persuasione. Rivendicando i diritti dei corpi alla comunicazione creativa potremo sperare di “significare”.
La materia dei calanchi (compresa la materia-volontà di quegli uomini) si è trasformata in un percorso sonoro trattenuto e lacerante. Per il pessimismo nichilista che teorizza la morte della comunicazione nel silenzio dell’astrattezza concettuale, una scelta vale l’altra. Per me, una scelta non vale l’altra. La materia – e noi siamo materia – ha ancora molto da insegnarci.