Ho scritto il Diario dello sdegno proprio nei mesi successivi all’11 settembre 2001, a quel fatto sconvolgente, quando da violenza è nata violenza, con la guerra ingiusta e assurda in Afghanistan, dove ci sono stati altri morti, altre vittime innocenti. Bisogna dubitare di chi si erge a paladino della verità con la v maiuscola, di chi viene guidato da una patologica convinzione di poter giudicare tutto e tutti. Come hanno fatto gli Stati Uniti. Senza ascoltare le ragioni dell’altro. Nel micro come nel macromondo la violenza nasce dall’arroganza, che nega il buon senso e la tolleranza, la capacità di vedere e accettare le contraddizioni senza sentirsi i salvatori depositari del bene assoluto. In fondo, si tratta dello stesso atteggiamento supponente che hanno avuto i teorici dell’avanguardia nel Novecento. Ho orrore della protervia, sia essa estetica, etica, politica, religiosa.
Fin dall’inizio della mia storia di musicista mi sono posto un interrogativo: perché la musica contemporanea è così astratta? Anni fa, il fatto stesso che mi ponessi questo dubbio, faceva sì che io venissi facilmente tacciato di revisionismo, di passatismo. La musica non era considerata un oggetto da percepire, ma un oggetto da concepire: si scriveva musica non perché dovesse essere ascoltata, ma per interrogarsi sul linguaggio musicale. Così, se da un lato mi sentivo attratto dalle acquisizioni del pensiero novecentesco, senza il quale non esisterei e credo non esisterebbe il lato più significativo della musica d’oggi, dall’altro mi sarebbe interessato mettere a frutto queste teorie. Ma non era facile: adesso sappiamo come scomporre il fenomeno musicale in parametri e cerchiamo di ricomporre questi parametri in modo da scatenare qualche cosa che diventi musica, la quale, una volta percepita, metta in moto meccanismi collettivi, non soltanto analitici, ma anche inconsci, poetici, creativi. Curiosamente, proprio le motivazioni ideologiche di un pensiero che si riteneva “materialista” portava al massimo dell’astrattezza e, quindi, dello spiritualismo. A parer mio, c’era un bisticcio totale. Per istinto e formazione, ho sempre creduto nell’unità tra corpo e anima, idea e oggetto, per cui l’arte concettuale mi risultava completamente estranea, poiché portava all’abolizione dell’oggetto artistico in funzione del concetto.
Certo in quegli anni ero del tutto in minoranza. Nonostante i riconoscimenti importanti ottenuti fin da giovane, ero accolto con prudenza perché l’intento del ‘suonar bene’ dava in qualche modo l’impressione che il mio stile tendesse all’immoralità. E via dicendo con i confini tra ciò che suonava più o meno tonale, più o meno radicale, come se questo potesse avere la benché minima importanza nel garantire la qualità o la profondità del messaggio.
Non credo che il linguaggio possa scaturire da un codice arbitrario che si può di volta in volta ridefinire su una “tabula rasa”. Penso invece che sia un bene collettivo, da rispettare, coltivare, approfondire, anche “forzare” verso il nuovo, certo.
Per quanto riguarda il teatro musicale, ancora oggi c’è chi sostiene che “raccontare” sia reazionario. Il che suona piuttosto buffo. Si è guardati male ( e ancor più lo si era qualche anno fa) solo perché si usa il termine “opera” anziché un qualche bizzarro sinonimo che garantisca la distanza dal modello storico. E in campo musicale certi tabù sono persistiti molto più a lungo che in altri ambiti. Credo che da decenni nessuno pensi più che sia reazionario scrivere un romanzo… Gli studi scientifici più aggiornati svolti nell’ambito della psicologia cognitiva e dell’intelligenza artificiale hanno invece dimostrato che narrare, nel senso tradizionale del termine, è un archetipo che fa parte della nostra natura come respirare, mangiare, amare, parlare, cantare. L’innovazione deve quindi innestarsi su una griglia archetipica affidata alla tradizione, che, per essere trasgredita, va conosciuta perfettamente. Più difficile aggiungere uno spiraglio di nuovo in un contesto che si è sedimentato in un tempo lunghissimo, che cancellare tutto ciò che è stato, senza per questo riuscire a dire nulla di originale.
La mia musica nasce sempre da un’idea di cantabilità proiettata su griglie strutturali rigorosissime: i miei sono temi contrappuntistici che nascono da campi armonici ben definiti. Dal totale cromatico seleziono poche note, che costituiscono il campo armonico base di tutto il brano all’interno del quale ogni nota può essere la principale e intorno alla quale le altre possono disporsi secondo criteri di circolarità o di simultaneità. Così ottengo già un tipo di vibrazione, di espressività armonica differenziata. Questo mi consente un’identità di colore armonico per gli intervalli che scelgo e negli anni ho certamente sviluppato un campionario, un lessico, una grammatica personale di cui mi avvalgo. Dopo di che stabilisco dei materiali tematici, sempre contrappuntistici, basati su gesti melodici o, se si preferisce, frammenti melodici, che secondo diverse combinazioni diventano temi reticolari, contrappuntistici. E infine, in riferimento a questo materiale, sviluppo le idee formali. A quel punto diventa fondamentale il rapporto armonia- timbro. Spesso si è detto che nella mia musica il timbro è sempre riconoscibile. Ciò non dipende soltanto da particolari tecniche di emissione del suono, ma anche da un certo modo di combinare gli strumenti, che mi deriva anche dall’esperienza maturata nello studio elettroacustico di Friburgo, quando fui invitato da Luigi Nono. Il mio fine lì era quello di studiare l’analisi elettroacustica e la fisica del suono per poi piegarle ai miei intenti espressivi, considerandone quindi i segreti come mezzi, non come scopi.