In un quartetto classicalmente concepito e affidato a una delle formazioni timbriche più astratte e omogenee, ho applicato all’ambito puramente strumentale un principio che sto sempre più sviluppando anche in campo teatrale, operistico, cinematografico. Ho infatti tenuto più che mai conto delle tesi, da me studiate con ostinazione, di Jean-Jacques Nattiez. Rielaborandole sul piano estetico, ho voluto portare alle estreme conseguenze ciò che lo studioso ha analizzato sul rapporto tra forma oggettiva ed espressione. Cercando di non sacrificare uno dei due poli all’altro nel momento della composizione.
Questo difficile equilibrio da me perseguito si concretizza in modo volutamente concentrato nel primo movimento, per sciogliersi in una dialettica più libera con gli affioramenti di materiale sonoro già organizzato in organismi quasi autonomi negli altri tre ( in modo via via più accentuato, come sa dell’ultimo tempo si dovesse circolarmente riprendere con quello, più astratto e rigoroso, iniziale). La ricerca di una corrispondenza quasi virtuosistica – sul piano della scrittura – tra semiosi oggettiva e semiosi soggettiva, così come l’ho mediata negli anni da Nattiez, e presente in filigrana anche nelle mie arcate operistiche o cinematografiche, ha guidato dettagliatamente la costruzione fiamminga di questo brano.